“Bartleby! Fate presto, sto aspettando.” Udii il lento stridio della sedia contro il pavimento nudo, e subito dopo egli apparve sulla soglia del suo eremo. “Di cosa avete bisogno?” chiese mansueto. “Le copie, le copie”, risposi frettolosamente. “Dobbiamo confrontarle. Prendete…”, e gli porsi il quarto esemplare. “Preferirei di no”, disse, e discretamente scomparve dietro il paravento. (Melville H., Bartleby, lo scrivano)

Bartleby non è certo l’esempio più esemplificativo del concetto di quiet quitting, incarnando un rifiuto pressoché totale, ma apre una finestra sul ritirarsi in una zona inaccessibile alle eccessive e incomprensibili richieste del mondo circostante. Cosa c’entra il quit quitting con il rifiuto? Con questo termine si intende la tendenza a lavorare il minimo indispensabile per non perdere il posto di lavoro. Il concetto di “minimo indispensabile” nel corso del tempo ha però assunto toni differenti che vanno da un più che condivisibile lavorare nel rispetto degli obblighi contrattuali, fino a un atteggiamento ostile e non collaborativo. Il ventaglio delle declinazioni con cui viene usato questo termine è ampio e stratificato. Il problema è che troppo spesso lo sviluppo delle tecniche e delle funzioni legate al management rimane isolato dal concreto contesto sociale in cui si produce, perdendo di vista le ragioni presenti dietro un fenomeno.

In molta cultura manageriale circolante aleggia un non detto abbastanza ingombrante. Quanto è diffusa una cultura dell’organizzazione aziendale rispettosa delle esigenze dei lavoratori e del loro benessere? Quanto le richieste delle aziende sono abitualmente orientate, per cultura generale, a chiedere un carico maggiore di lavoro come prassi istituzionalizzata? Se fare il minimo indispensabile è fare quello per cui si è pagati, i toni usati come “fare il minimo indispensabile” non rendono giustizia della verità. Un’accusa che può essere facilmente capovolta, visti i contratti in circolazione, in “essere pagati il minimo indispensabile per una durata contrattuale minima indispensabile”. Se le aziende non investono nei propri collaboratori, erogando salari minimi che spesso non permettono un vivere dignitoso e programmando orari di lavoro insostenibili, perché poi risulta scandaloso che gli stessi non si prodighino senza risparmio di energie al loro lavoro?

Una cosa è fare il lavoro che ci compete con passione, un’altra farlo con sufficienza, ma altra cosa ancora è essere costantemente sottoposti alla richiesta di un impegno straordinario. Francesca Coin nel suo libro, Le grandi dimissioni, edito per Einaudi, prendendo in esame il fenomeno correlato della Great Resignation negli Stati Uniti ci spiega, citando Noreen Malone, perché siamo entrati nell’era dell’antiambizione. “Qualcuno ha usato il termine quiet quitting per descrivere questo fenomeno: la decisione di fare il minimo indispensabile, senza identificare con il lavoro l’intera propria vita. Si tratta di una definizione controversa: giustamente, c’è chi pensa che sia sbagliato considerare come una forma di quitting la decisione di limitarsi a fare ciò che è previsto dal contratto, perché sottende che sia normale eccederne gli obblighi gratuitamente. Resta pur vero, tuttavia, che, in una cultura del lavoro puntellata da aspettative di devozione, rapportarsi al lavoro come un semplice lavoro è già considerato un affronto, una forma di insubordinazione, una prassi guidata dalla mancanza di deferenza e di gratitudine, insomma uno scandalo, e in parecchi casi basta questo per essere oggetto di ritorsioni e di reprimende. Per l’ex segretario americano del lavoro, Robert Reich, c’è una carenza di salari adeguati, di tutele, di riconoscimento economico, professionale e sociale nei luoghi di lavoro. In assenza di queste condizioni, ha aggiunto, la classe precaria non tornerà a lavorare”.

In un articolo dell’anno scorso, Weird, citando la Harvard Business Review, evidenzia come nelle analisi di questo istituto sia emerso che la causa del poco coinvolgimento delle persone sia dovuta non tanto alla mancanza di voglia di lavorare da parte delle persone, ma alla difficoltà di manager e aziende “nel saper conciliare gli obiettivi aziendali col benessere individuale e collettivo dei propri dipendenti”. In questo quadro il quiet quitting sarebbe anche una forma di autotutela e cura dei lavoratori rispetto a un modello lavorativo che può portare molti, come evidenziano i dati, al burnout. Investire nella valorizzazione delle persone è il solo modo che un’azienda possiede per portare avanti i propri progetti con passione. Molte delle interpretazioni che siamo soliti fare sul modo di lavorare si basano su una cultura del lavoro che è tracimata da tempo dal suo luogo naturale di soddisfacimento di bisogni e passioni per entrare con prepotenza nell’intimo delle identità personali e della continua costruzione dell’immagine di sé, elevando all’estremo i livelli di stress.

In un’economia che mette a valore sfere intime della persona, come le capacità relazionali, la gestione delle emozioni, l’investimento del desiderio, per essere produttivi e coinvolti nei processi produttivi sarà sempre più necessario per le organizzazioni saper gestire il tempo di riproduzione delle energie necessarie alla produzione e allo sviluppo di queste attitudini personali richieste durante le fasi di lavoro. Il tempo libero, gli affetti, le amicizie, il tempo per la cultura, lo studio, il riposo, lo svago, il divertimento diventeranno sempre più fattori immediatamente produttivi, per il contributo alla strategia aziendale, al benessere organizzativo e all’innovazione in generale. Senza la comprensione dell’origine dei requisiti richiesti, questi, semplicemente, non verranno più forniti, non per pigrizia o per mancanza di cultura del lavoro, ma per il loro stesso esaurimento.